Simone Moro racconta la traversata delle sue Orobie
Orobie 20 20: 150 km di trekking e un centinaio di vette tra i 2000 e i 3000 metri. Così Simone Moro ha voluto ripercorrere le sue montagne che si trovano per buona parte in provincia di Bergamo, una delle zone più colpite dall’epidemia di Coronavirua, attraversandole da una parte all’altra.
Come è nato il progetto
Nel 2000 Mario Curnis, classe 1936 propose a Simone Moro di percorrere lo spartiacque tra le province di Bergamo e quelle di Brescia, Sondrio e Lecco.
“Avevo vissuto un’esperienza memorabile ed entusiasmante con Mario – spiega simone Moro – Una cresta era riuscita ad unire due modi e due generazioni di alpinisti. Sin dall’inizio, avevo capito e ammirato la bellezza di un mondo selvaggio e avventuroso che avevo proprio fuori casa. Mi sembrava davvero impossibile che un tale progetto sulle creste non fosse mai stato realizzato. Nei miei archivi fotografici, quell’esperienza è catalogata come una vera e propria spedizione. Allora, io e Mario avevamo voluto dormire sempre in bivacchi, rifugi o baite, proprio per dare il senso che anche l’alpinismo di cresta e delle alte cime non si deve sottrarre alla tradizione di andar per rifugi, incontrare la gente, parlare con le sentinelle di quei luoghi. “Le più grandi cordate nascevano nei rifugi”, diceva Mario, e: “L’alpinismo del mordi e fuggi, del rientro a casa di corsa altrimenti la moglie o la morosa mi sgrida… non ha senso! Porta la morosa in montagna o al rifugio, ma bisogna avere tempo e calma”. Queste frasi e concetti erano e sono ancor oggi l’unica etica di Mario Curnis e li ho voluti mantenere e fare miei anche nella decisione di tornare quest’anno a ripetere, a vent’anni di distanza, questa lunga e non banale traversata.
“Le Orobie sono le mie montagne, quelle della provincia più martoriata dalla pandemia di inizio anno, quelle di gente che è abituata a lavorare duro, a resistere, con una ancor scarsa vocazione turistica, ma che proprio nel territorio e nel carattere ha il potenziale per smettere di considerarsi come luogo poco attraente o di secondo ordine rispetto alle blasonate montagne a Est e a Ovest della nostra provincia”.
Orobie 20-20
Poi, facendo un tuffo nel passato e nella memoria, è nato il progetto “Orobie 20-20” che Simone Moro ha deciso di condividere con Alessandro Gherardi, alpinista e grande conoscitore delle Orobie, oltre che suo amico.
“L’epilogo e l’evoluzione di questa seconda traversata, che ho compiuto in questo 2020 a distanza di 20 anni dalla mia prima con Mario Curnis, sono stati la riuscita completa nel mio intento e la conferma di un’amicizia rinsaldata con Alessandro che, dopo il secondo giorno di marcia, mi ha detto che mi avrebbe seguito percorrendo i sentieri e le bocchette a valle e le vette che c’erano da salire, senza percorrere con me le creste più esposte. Mi ha confessato che non si sentiva preparato tecnicamente e psicologicamente per quel tipo di terreno aereo e instabile e ha preferito così, in maniera molto onesta, palesare questo suo limite. Ho apprezzato molto questa cosa di lui, un gesto di saggezza e di onestà che mi ha messo subito di fronte al fatto che avrei dovuto fare da solo tutte le parti più difficili della traversata. “Beh, un bel modo di ripetere ed evolvere, rispetto a 20 anni fa”, pensai”.
Simone ha camminato ore e ore da solo con solo un walkie talkie a connetterlo con Alessandro. “Gli incontri avvenivano in vari punti lungo il percorso, nei pressi dei rifugi o su alcuni tratti più facili e vette più escursionistiche. Il fatto che fosse possibile seguirmi live ha permesso anche ad altre persone di coordinarsi e venirmi ad incontrare lungo il percorso. Nel 2000 io e Curnis avevamo incontrato una sola persona, sul Gleno: un uomo di 78 anni e poi più nessuno”.
Meno ghiaccio più fauna
“In Orobie 20-20 volevo anche verificare e confrontare lo stato dei ghiacciai orobici o quello che ne rimane rispetto alle loro condizioni del 2000. Volevo paragonare le foto che avrei scattato quest’anno con quelle che realizzai con Mario. Purtroppo, come era prevedibile, ho constatato la scomparsa di queste risorse di acqua in forma di ghiaccio, sostituite da grandissime pietraie. Dall’altro lato della medaglia, ho visto una fauna più presente e numerosa. Stambecchi, camosci, pernici bianche, marmotte e aquile sono presenti in numero importante e non sono per nulla intimoriti dall’uomo”.
Luoghi maestosi e meravigliosi che però sono molto meno noti rispetto ad altre montagne: “Le Orobie potrebbero e dovrebbero essere promosse”.
Il bilancio
“L’esplorazione è l’arte di mettersi in gioco e non ha luoghi né confini che ne determinino l’intensità e la purezza: è ovunque. Anche questo Orobie 20-20 finirà tra le avventure e le spedizioni che la vita mi ha dato l’occasione di vivere. Terminare la traversata al Rifugio Ratti/Cassin ai piani di Bobbio ha voluto essere un tributo e un ringraziamento ai grandi del passato, con Mario Curnis come alfiere, presente in carne e ossa ad attenderci e a testimoniarlo. La traversata stessa e il luogo in cui si è conclusa vogliono essere un ringraziamento al romanticismo di quell’alpinismo classico a cui questo viaggio per creste appartiene. Gradi, cronometro, stile, o record non sono vocaboli o parametri che fanno parte dell’andar per creste sulle Orobie. È stato un modo, forse il miglior modo per me ed Alessandro, per tornare a un tempo che c’era, quello di suo papà Angelo, e quello dei pionieri del passato. Lo stesso compiuto già da Pietro Medici, il tagliapietre di Castione che 150 anni fa con Antonio Curò salì per la prima volta la Presolana, 2521 m, la regina e simbolo delle Orobie, definendo la cima come “una lunga cresta senza un vero punto dominante”. Anche per questa traversata, che io e Alessandro abbiamo compiuto un secolo e mezzo dopo la pionieristica salita di Medici e Curò alla Presolana, non posso definire né identificare un solo punto
dominante del viaggio a fil di cielo, ma ricordo solo le creste, gli infiniti su e giù durante i quali le cime erano solo i punti che dovevo superare per vedere la continuazione di questa linea infinita e naturale. È la metafora dell’andar per monti in qualsiasi parte del pianeta, dagli Ottomila fino alle colline più dolci. La vetta è sempre e solo un punto di passaggio e mai di arrivo, perché la felicità e la passione non risiedono in una destinazione ma nel percorso. Importante è identificare il proprio e mettersi in cammino”.