Suoni delle Dolomiti, la vera musica in montagna non ha bisogno di record
I calendari estivi sono sempre più pieni di concerti, concertini, appuntamenti musicali in quota e occasioni varie create dalle aziende turistiche per allietare le giornate dei vacanzieri in scarponcini da trekking. Però, spesso, in queste occasioni, tra violinisti da Tic Tok, tamarri che propongono la hit dell’estate e musicisti che cercano il record per nascondere le proprie lacune tecniche, si perde di vista quello che dovrebbe essere la protagonista, la musica appunto. Negli ultimi anni abbiamo visto (sentito poco) un sassofono suonato sulla vetta dell’Everest o un concerto di pianoforte a 5600 metri di quota. Tutto bene, ma soprattutto per i titoli dei giornali. La musica, in questi casi, diventa solo uno sfondo, un pretesto per un aperitivo in quota o per scrivere il proprio nome del Guinness. Un fatto di immagine più che si sostanza. Una “experience” più che un concerto in quota.
Ci sono eccezioni, chiaramente, appuntamenti che richiamano gente che in montagna ci va apposta per ascoltare la musica e che definiscono nuovi modi di fruizione. Gli scenari d’alta quota diventano teatri open air, una sfida per il musicista perché “l’acustica non esiste” ma “il suono va a riempire gli spazi” e una reale esperienza musicale, non una piaciona “experience”, per l’ascoltatore. E’ il caso di Suoni delle Dolomiti, rassegna che ogni anno Trentino Marketing organizza in alcuni dei luoghi più suggestivi della provincia autonoma (gli appuntamenti continuano fino al 1 ottobre, qui il programma) Un appuntamento che ricorre da 28 anni e che ha come direttore artistico Mario Brunello, violoncellista, unico musicista italiano ad aver vinto il Concorso Cajkovskij di Mosca, nel 1986, a 26 anni. Proprio il concertista di Castelfranco Veneto con il
suo strumento, un Maggini del Seicento, è stato il protagonista di un concerto al Col Margherita nei giorni scorsi.
Carlo Melato lo ha intervistato per La Verità (qui l’intervista completa); riportiamo di seguito un estratto:
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Dalle Alpi al deserto, passando per laghi e mari, il viaggio continua. Ma com’è nata tanti anni fa l’esigenza di far uscire la musica dalla comodità dei teatri?
«Fin da bambino ho sempre portato il violoncello nei luoghi in cui mi piaceva stare. Dove trovavo un contatto diretto con la natura o un particolare silenzio. Per me è qualcosa di assolutamente naturale e anche oggi non ha nulla a che vedere con gli sport estremi o con il Guinness dei primati. Il pubblico lo capisce e partecipa in modo sempre più sorprendente».
Lei ha iniziato a percorrere questa strada molto prima della comparsa dei social network. Oggi i concerti «alternativi» non mancano, ma spesso sembrano pensati più per essere fotografati che per essere ascoltati. L’anello debole è proprio la proposta musicale.
«Viviamo in un’epoca che si lancia alla rincorsa di contenuti digitali strabilianti, nella speranza che diventino “virali”. I Suoni delle Dolomiti è un festival che fin dall’inizio ha cercato di evitare spettacolarizzazioni e di rispettare la fragilità della montagna. Non abbiamo mai usato elicotteri per trasportare pianoforti a coda in luoghi improbabili o cose simili. E, con il tempo, abbiamo anche spostato in avanti le date del cartellone».
Per quale motivo?
«I nostri appuntamenti non sono pensati per una folla, che può capitare sulle cime anche per caso, visto che in agosto sono tutti in vacanza Ci rivolgiamo a un pubblico composto da persone come quelle che l’altra mattina hanno preso le ferie apposta per esserci. Un sacrificio che è stato ripagato da alcuni capolavori della storia della musica e dallo spettacolo indimenticabile del sole che sorge a 2.500 metri. “Il brivido della creazione”, lo definiva Mario Rigoni Stern».
Tutto bellissimo, ma come la mettiamo con l’acustica? In cima a una montagna non può essere ottimale.
«La correggo: il tema non è che l’acustica non sia buona. Nei luoghi dove suono io l’acustica non c’è proprio. È quello che spiego a tutti i musicisti che invito».
Mi faccia capire meglio.
«La prima cosa che dico ai colleghi è: non aspettatevi di trovare un’enorme roccia alle spalle, non contate su echi o risonanze. Il suono non tornerà mai indietro, ma andrà a occupare gli spazi».
E l’esecutore resta «nudo».
«Esatto, niente a che vedere con il 50 per cento di ritorno di cui si può godere al Musikverein di Vienna. Nessuna sala che ti venga in soccorso abbellendo il suono. Hai a disposizione solo il tuo strumento, le corde, il legno. Con quel materiale devi arrivare all’ascoltatore e devi essere il più espressivo possibile. Mi creda, si impara tantissimo».
Intende dire che queste esperienze hanno cambiato il suo modo di suonare?
«Certamente. Se un esecutore fa il suo mestiere sempre e solo dove il suono è magnifico, la ricerca personale si addormenta. È proprio in uno spazio aperto, a tu per tu con il suono, che sei costretto a scavare. Come uno scultore alla ricerca di nuovi materiali».
Prima ha fatto un accenno al silenzio, argomento che le sta molto a cuore e sul quale ha scritto anche un libro. Lei spesso ne parla come di un «liquido amniotico».
«Pensiamo a un compositore, magari affacciato alla finestra o seduto al tavolino di un bar. Al di là di ciò che lo circonda, dentro la sua testa c’è un silenzio generatore di suoni, di forme, di musica. È quello il silenzio di cui parlo. Finché c’è vita il silenzio assoluto non esiste. Ma, come dico spesso, in montagna si può sperimentare, in verticale. Nel deserto invece il silenzio è orizzontale».
Questo passaggio merita un approfondimento.
«Ho sempre visto la montagna come una buca scavata nel cielo. Le enormi pareti non sembrano un ostacolo, ma una rampa di lancio. La verticalità ha un suo potere di attrazione e la cima conduce a un silenzio personale. Il deserto invece è diverso, fa nascere la speranza di un incontro con l’altro».
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